Esagera

da I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov

 

Le vedevamo raramente le donne,
soprattutto da vicino,
soprattutto in una stanza,
a faccia a faccia.
Mi sembrò bellissima.
Feci un inchino, salutai.

Varlam Salamov 

 


Crediti

con Febo Del Zozzo
macchinisti in scena Bruna Gambarelli, Luca Ravaioli, Denis Gessi
voce di Irina Sirotinskaja, Sara Gambarelli, Annunciata Gambarelli
suoni Febo Del Zozzo, Luca Ravaioli
scene di Laminarie realizzate con Denis Gessi, Pasquale Zanellato, Luca Ravaioli
regia Febo Del Zozzo
organizzazione Laura Bernardini


Prima rappresentazione 12 giugno 2000, Teatro Furio Camillo, Roma.
Il primo studio dello spettacolo viene presentato nell’ambito del Festival Hops! Festival di visual e performing arts il 27 gennaio 2000, Link, Bologna.

Esagera muove dalla scoperta della qualità fortemente teatrale degli scritti di Varlam Šalamov di cui recupera i suggerimenti più emotivi. 

In una dimensione scenica di grande intimità – una stanza – si muove un solo interprete: giacca di lana ruvida di provenienza polacca o ceca, pantaloni scuri, scarpe di fabbricazione nazionale. La stanza è un minuscolo territorio, ha una finestra, una poltrona, un piccolo tavolo. Unico co-protagonista, il suono (all’inizio solo uno sbattere d’ali di uccelli) a delimitare e segnalare i tempi e i ritmi della rappresentazione. Fuori della stanza tre macchinisti azionano a vista un groviglio di corde, e ogni corda muove e cambia la posizione di un oggetto nella stanza, cosicchè la percezione visiva dello spettatore muta di continuo. Gli oggetti vengono spostati con fatica, con dosata precisione manuale, ma anche in maniera “vulnerabile”; questa non meccanicità dello spostamento determina quello che potremmo chiamare il gesto dell’oggetto. Dentro la stanza, l’attore testimonia ciò che Irina Sirotinskaja (la donna che per lunghi anni ha raccolto nella memoria i racconti di Šalamov) ricorda dell’amico scrittore. Non è tanto la vita nei campi di lavoro – che pure viene ricostruita attraverso azioni sceniche – che interessa, quanto piuttosto far rivivere alcuni aspetti della vita quotidiana di Šalamov, prigioniero nel campo, ma libero nella sua stanza, al riparo di questa preziosa nicchia.

VARLAM ŠALAMOV (1907- 1982)

Fu un poeta, scrittore e giornalista russo. Dal 1927 svolse attività d’opposizione al regime staliniano. Trascorse 17 anni nel lager della Kolyma, in Siberia. Subito dopo il ritorno a Mosca, Šalamov cominciò a comporre la sua monumentale opera sulla sua vita nel gulag. Le opere di Šalamov hanno cominciato ad essere pubblicate in patria solo alla fine degli anni Ottanta, dopo la sua morte. “Vi sono libri che sembrano rifiutare ogni presentazione: parlano, anzi gridano, da soli. Sono anche libri che sembrano sottrarsi a un giudizio estetico: ci portano all’inferno, come guide impeccabili, e lì ci abbandonano a noi stessi […]” (dalla presentazione di Adelphi 1995).


PRESS

[…] Una stanza semioscura, dove l’attore si muove lentissimo tra una poltrona e un tavolino, all’esterno due macchinisti muovono corde, azionano carrucole, freneticamente, ma con misura, ritmo ossessivo ma scandito. Poi, movimento di scena, cala il soffitto, rimangono dei vestiti appesi, lo stesso attore questa volta mima i lavori forzati, cadono cubetti di legno, un cubo più grande, due marionette pendono dal soffitto e lottano tra gli applausi registrati, poi una parete viene trafitta con dei chiodi. In sottofondo interloquiscono le parole di Irina Sirontiskaja. Parole anti spettacolari, fredde, necessarie, ma senza emozione, come quelle pochissime dell’attore in giacca e pantaloni. I rumori invece sono vividi, violenti, invasivi. Muoversi tra questi simboli non è facile.

Quelli di Laminarie ci costringono a selezionare i sensi, preferire l’udito, dosare la vista, allenarla alla lentezza del gesto, alla profondità dei piani (scena, proscenio, sfondo). […] I gesti sono astratti, svuotati da ogni intenzione comunicativa. Laminarie lavora sul sottile, sulle percezioni. Così i gesti non hanno scopo pratico, nessuna emozione di partenza e in questo vuoto diventano assoluti, radicali, trasparenti ma non privi di memoria. Se il gesto lentissimo si trasforma in una nota per le infinite combinazioni, le parole anch’esse impersonali si disperdono, scandite da rumori persecutori (pagine di libro, colpi di martello…)

[…] l’artificio dei pannelli, delle pareti che si spostano ad opera dei due macchinisti, le marionette, i cordami, un po’ di teatro per bambini, ma che qui diventa volontà di mostrare, di soddisfare il falso desiderio della vista per trasportarla immediatamente verso il dettaglio, essenza della poesia e suo flusso vitale.

(da Simone Azzoni, «L’arena – il giornale di Verona», 8 marzo 2001)

 

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