Mi si consenta un incipit da testimone che muove dal 1990. Da poco allora insegnavo al DAMS di Bologna, quando cominciò a chiedermi consigli collaborativi una studentessa appassionata, resa tale da coraggio autodidattico; e ancora sono legato a Bruna Gambarelli fondatrice insieme a Febo Del Zozzo del gruppo Laminarie. Bruna, formatasi a Cesena con la “Raffaello Sanzio” – la “socìetas” d’arte da cui anch’io ho imparato – ha assunto poi responsabilità progettuali pensando a un teatro dell’arte e dell’uso sociale insieme.
Le Laminarie sono alghe dalle virtù dilatatrici adottate dalla prassi ostetrica per favorire il parto. Febo Del Zozzo e Bruna Gambarelli hanno certo onorato l’impegno assunto con la formazione del gruppo teatrale chiamandolo con il nome di queste alghe che si fissano sui fondali come radici, operose per dinamiche misteriose, a distanza dagli sguardi umani.
Parliamo di artisti formatisi nell’epicentro teatrale europeo che continua a essere la Romagna, dove sono fiorite almeno altre dieci realtà teatrali notevoli, dalla Valdoca, a Ravenna Teatro, al Teatro Due Mondi a già affermati gruppi nuovi. E si aggiunga che questa storia non sarebbe raccontabile senza il festival di Santarcangelo e altre rassegne generalizzatici, del territorio teatrale della romagna. Tanto che di una “scuola romagnola” si potrebbe parlare, come agli inizi del Nuovo Teatro Bartolucci definì “scuola romana” il nucleo più consistente di nuovi artisti polemicamente attivi nella città dei ministeri. Dalla Romagna delle “radici anarchiche” viene questo miracolo teatrale, in contrasto con la Romagna turistica, ma avendo anche trovato in questa degli stimoli per cavarne sopravvivenza e parametri di differenziazione.
Ma anche il DAMS bolognese, dove Bruna si è laureata con una esemplare tesi su Simone Weil e il teatro, ha costituito un fondamentale stimolo per la nascita della compagnia. Mentre di fatto, sentire ed etica, insieme a risorse inusuali, hanno portato Febo a maturare una drammaturgia registica capace di delicati sviluppi visivi come di enigmatici urti e Bruna ad agire senza soluzioni di continuità come drammaturga, attrice, regista e pedagoga in sintonia. E poiché li ha sempre guidati la volontà di coniugarsi con ogni autentico richiamo sociale, la loro operosità si è naturalmente integrata con estreme ricerche di esistenza degna. Li si è visti creare da agit prop della pace, così, in paesi sconvolti dalla guerra nella ex Yugoslavia in prossimità del fronte cruciale di Mostar. In Italia, da fabulatori intenti a una nuova levità scenica, capace di attrarre dall’intimo spettatori bambini e adolescenti nonché adulti non immemori dell’in-genuità poetica, e come da drastici sollecitatori di coscienza civile.
Le Laminarie sono cresciute anche attraverso sviluppi combinativi tra le letture di Simone Weil e l’arte visiva informale, mentre il suo processo autodefinitorio è tutt’altro che concluso. Ma attenzione, questi richiami sostanziali, benché a volte disomogenei, non hanno disordinato gli orientamenti di questo gruppo: ne hanno stimolato al contrario il sentore anticonformista e l’intelligenza creatrice.
E’ questa una realtà teatrale attiva a tutto campo, che ha stimolato notevoli doti artistiche in vari compagni di scena ed è originalmente iscritta nel Nuovo teatro italiano insofferente alle mediazioni, per non distrarsi dall’arduo impegno assunto, di dare continuità a storiche fioriture dell’espressivismo teatrale.
di Claudio Meldolesi
IMPERSONALE, viaggio senza parole nel mistero di una coppia di distinti esseri (o essenze) abitanti il teatro nudo di un’esistenza da costruire e inventare; dove lo scarto delle differenze che sempre più – nel mentre – si rivelano fra i due, schiude in realtà la breccia al passaggio di un loro possibile verace incontro, ove ritrovare l’abbraccio combattuto di una reintegrata totalità libera da infingimenti, trucchi e apparati della mera rappresentazione.
Damiano Pignedoli, dramma.it
Ci teniamo stretti a quattro vite di un’altra fibra, che hanno negato consenso alla forza cieca del potere. Quattro figure che, con la coerenza delle loro vite e il rigore delle loro opere, hanno aperto varchi nel vortice rumoroso in cui stiamo.
In un momento di disgregazione collettiva ci prendiamo il lusso di volgere lo sguardo a vite altre rispetto a ciò che definiamo come monopolio, vale a dire un “regime di mercato” che ci costringe dentro un discorso precostituito e ci obbliga ad azioni calcolate.
Monopolio è frutto di una forza-debolezza che orienta il nostro lavoro in direzione di un senso nuovo della ricerca artistica e della vita in comune.
Monopolio esprime vocazione al contatto – con la materia, con gli oggetti, con la parola, con le parole, con i corpi, con il mondo dentro e fuori la scena teatrale, con i luoghi – e procede attraverso pratiche d’interconnessione fra fiaba e tragedia, fra gioco, riflessione, eventi creativi e esperienze di resistenza, fra centro e periferie.
Quello che è straordinario nello spettacolo di Laminarie dedicato a Fischer è la scelta dei protagonisti, dei tre Bobby. Il ragazzino, il giovane campione, il vecchio matto: in scena quei tre (Lorenzo Benini, Alessandro Cafiso, Emilio Vittorio Gioacchini) sono perfetti. Basterebbe guardarli cinque minuti, fermi immobili. E infatti non c’è bisogno di parole. Tre Bobby Fischer e, in fondo uno soltanto, uno e ossessivo.
Vittorio Giacopini, in Bobby Fischer: in controtempo, in Ampio Raggio n. 1
Attorno alla vicenda singolare della filosofa francese si accentra uno dei quattro spettacoli di Laminarie dedicati a quattro vite di un’altra fibra, vite altre rispetto al regime di mercato vigente, rispetto a un monopolio che mortifica i corpi e le anime dei singoli e delle collettività. Lo spettacolo Un senso nuovo propone infatti una successione di tre scene che si aprono l’una sull’altra dedicate a tre lettere di Simone Weil: la prima indirizzata all’amica Albertine, il cui oggetto è la lettura della sua esperienza come operaia; un’altra inviata a Bernanos, nella quale si ri-legge l’atmosfera della guerra civile spagnola; infine, quella da Londra ai genitori, una delle ultime scritta prima della morte, che impone di metterci in ascolto delle verità che i pensieri della filosofa contengono.
Nella prima scena Febo Del Zozzo traduce, attraverso lo scontro con la materia e i colpi che ne afferrano dal di fuori il corpo e attraverso una trama di suoni assillanti e ripetitivi, l’ossessività del lavoro in fabbrica e la conseguente frantumazione che umilia e uccide la facoltà di attenzione nei lavoratori, un delitto imperdonabile, perché è il “delitto contro lo spirito”. Alla seconda scena dà sostanza, al di là dello stesso sipario dinanzi al quale si è svolta la prima, un’ombra e danno suono una pluralità di echi, quasi ad evocare la distanza necessaria a rileggere la follia omicida che in circostanze di guerra può abbrutire tutti, persino coloro che apparirebbero schierati dalla parte del bene. Cade il sipario-velo e una rete di coppie di fili molteplici tagliano il riquadro delimitato sui due lati verticali e riempiono lo spazio da ogni parte con linee intersecantisi in più punti eppure convergenti in un unico centro luminoso. Questo nuovo sipario lascia intravedere un fondale formato di lunghe strisce fissate in alto composte di foglietti tremolanti cuciti l’uno all’altro. Pur richiamando i foglietti tibetani di preghiera e quelli che compongono la massa non ordinata di frammenti dei Quaderni, la parete di fondo con il suo reticolo minuto afferra dal di fuori me spettatrice dando quasi un corpo al mondo in quanto testo dai molteplici significati: da laggiù si leva la voce ferma e vibrante di Bruna Gambarelli che legge le ultime volontà di Simone Weil indirizzate anche a noi posteri.
E a Bruna Gambarelli lascio il compito di chiarire un aspetto essenziale della pratica teatrale di Laminarie: “Ogni nostro spettacolo è iniziato pensando ad autori incontrati in precedenza. […] le loro opere contenevano ciò che per noi è il teatro. Non ci siamo arresi all’idea di utilizzarli nel nostro lavoro, abbiamo preferito farci fecondare da loro in attesa di trovare una lingua efficace che ne supponesse la forza. Questa lingua non c’era perché non c’erano più i discorsi, allora occorreva rifondare i discorsi. Nel far questo abbiamo dovuto spazzare via la persona, la biografia, la narrazione, i prima: ripartire dal vuoto, dalla grammatica, dalla sintassi e dalla morfologia” (Laminarie, Tragedia e fiaba, a cura di Bruna Gambarelli e Claudio Meldolesi, Titivillus Edizioni, 2008).
L’attesa ha dato e continua a dare i suoi frutti: Laminarie rende sensibili il legame e la connessione tra concepire, sentire e agire, quella relazione tra piani molteplici di lettura che è relazione simultanea tra i pensieri. Grazie alla necessariamente lunga gestazione di una modalità di lettura e mediante la trasposizione dell’attesa in azioni teatrali fondate su tecniche sonore e scenografiche vieppiù affinate nello scartare ciò che può “velare il modello”, Un senso nuovo non solo ci restituisce i riflessi della scrittura e della vicenda umana di Simone Weil ma anche tenta di cogliere attraverso il linguaggio molteplice del teatro “la cosa muta che deve essere espressa”.
Maria Concetta Sala, L’arte di leggere, in Ampio Raggio n. 1
Un macchinista e una ballerina. Costruiscono lo spazio e lo trasfigurano, in un teatro-lavoro senza parole, senza musica. Fatto solo di rumori di assi sbattute, di corde tirate e di passi e pose che provano a ridisegnare il corpo in bellezza, a scomporlo in tensioni trattenute o laceranti. Laminarie con “impersonale”, lo spettacolo dedicato agli accostamenti aleatori, sperimentali di John Cage che ha aperto la rassegna Urto a DOM, indaga la macchina teatrale come relazione tra materiale costruzione della scena e sognanti invenzioni.
Se all’inizio lo spettatore rimane perplesso perché (…) tutto sembra accostato dal caso, lentamente viene conquistato da immagini, contrasti, ritmi, slanci coreografici imprigionati in gabbie visive di forte suggestione. Il regista Febo Del Zozzo e la danzatrice Simona Bertozzi sono gli artefici di questo scontro tra azione utile e astrazione, tra ergonomia del fare e impellenza del fare immaginare.
Massimo Marino, Il Corriere di Bologna 5 marzo 2012