Nel 1988 ho incominciato una scuola di teatro a Cesena per cercare di specializzare la relazione di uno studio fatto insieme. Non volevo insegnare, ma studiare la rappresentazione, studiando pure le regole dello stare insieme.
Di questa prima scuola, chiamata “Scuola teatrica della discesa” Bruna Gambarelli, allora una studentessa del Dams di Bologna, fece parte, e ripensando ora a questa storia, traggo insegnamenti circa l’essenza locale e periodica di quella vicenda. Ora, come allora, io, Bruna e gli altri Scolari dobbiamo sapere che il luogo, per una scuola e per la politica, non può essere soltanto una condizione di base, ma anche uno scopo. Non abbiamo bisogno di un luogo per poter lavorare. Ma abbiamo bisogno di lavorare per formare un luogo. Il lavoro ha come scopo quello di formare un luogo, che è lo stare sulla terra ponendosi di fronte al destino. Occorre non tanto disporne, quanto disporlo, e ora come allora dobbiamo affermare un tempo che riprenda quello che -perduto- non se ne deve andare, e, anzi, col vuoto che procura crei il senso di un’attesa. Se non possiamo più contare sulla ritualità stagionale che collega terra e cibo, temperatura e comportamento, luce e nero profondo, possiamo cercare altri modi della periodicità. Saremo ancora per molto tempo condannati alla freddezza, ma siamo già attratti dall’avvenenza della periodicità dei gesti da inventare.
E così, scrivendo sull’opera di Bruna Gambarelli, non è per certificare la sua iniziazione teatrale presso la nostra Scuola, ma per certificare la sua lotta per la località e per la periodicità attuata nella compagnia teatrale Laminarie, da lei fondata assieme a Febo Del Zozzo. Questa lotta, lo ripeto, non proviene dal bisogno basilare di un posto per poter creare, ma dal bisogno di creare per poter far nascere un posto. Lo testimonia il fatto che Laminarie ha continuato a lavorare anche senza un posto, durante gli sfratti che ha subito a Bologna, una città non sempre amica. Per fortuna l’amicizia ha molto poco a che fare con il teatro. Se può facilitare le cose della vita, non significa nulla, o quasi, per la determinazione di una forma.
Penso che il nome della compagnia “Laminarie”, una famiglia di piante estinte, evochi un principio di sopravvivenza che non sta affatto a significare una forma di resistenza, ma un programma di ripresa di ciò che è addirittura estinto, secondo il potere che ha l’arte di fare rivivere le forme del passato attraverso una super-periodicità che, attraversando i secoli, le rimette in una circolazione nuova, non composta da reperti. “Laminarie” era uno dei nomi dell’Elenco delle Estinzioni, che facevo recitare nella nostra Scuola in uno speciale esercizio che, appunto, riconsiderava il passato più remoto.
L’occasione di questo scritto mi spinge a riflettere attorno alla speciale relazione umana che la Scuola stringe, e credo sia una riflessione che riguarda ancora il lavoro di Bruna, perché si prolunga nella prospettiva del quadro teatrale. Lo sguardo e il giudizio finali sopra e attorno ai nostri esercizi e alle nostre rappresentazioni, devono sempre provenire dalla nostra posizione in platea. La nostra Scuola non si è mai posta come luogo di un’esperienza interiore, ma come scuola dello spettacolo. Il destino dello spettacolo è la platea, non una camera di meditazione. Così il canto, per fare un esempio, è posto sotto un regime di metronomia; la voce è considerata nella sua interruzione che origina un silenzio consapevole di echi. Bruna è stata una delle migliori studiose della disciplina vocale, assieme a Cesare Isidoro Iacono, e accettò di frequentare, su mio invito, una scuola di canto gregoriano. L’importanza didattica del gregoriano per la nostra Scuola e per il principio compositivo sviluppato da Bruna, proviene dalla sua miscela di impassibilità e sensualità, e dal fatto che la complicata insistenza delle spire vocaliche, si discioglie in un’effusione di sovrana linearità, ormai immemore del calcolo…