All’inizio ci sono delle figure di fango, che non preludono ad alcuna metamorfosi o superiore livello di esistenza, ma così sussistenti da sempre e per sempre. Non che esse manchino di animazione, ché anzi tendono ad un’attività pressoché continua, seppure assai incoerente e dettata da impulsi momentanei ben presto senza seguito. Chi le guarda muoversi, chiuse in uno spazio senza luce, impossibilitate ad una qualche coerenza degli atti nel tempo, è assorbito, almeno per la breve durata della rappresentazione, dall’evidenza che in effetti le cose stanno così, che, ridotta al suo meccanismo primario, l’esistenza umana non ha altra misura che quella imposta dall’altro; cosicché ogni sforzo per sciogliersi dal vincolo ha come solo effetto quello di rinserrarlo e aggrovigliarlo. Siamo la metà di un altro, di molti altri, eppure si vorrebbe essere gli unici sulla terra, ci si vorrebbe muovere liberamente in dimensioni create da noi stessi.
Il teatro delle Laminarie nasce con la presa d’atto di questo nodo della condizione umana, i cui termini essenziali sono gravità, forza, assolutezza, e perciò violenza in tutte le sue forme infinitamente ripetute. Un carattere tragico, s’intende, quale si manifesta nella presente forma storica; ché i richiami alla tragedia antica sono soltanto segnali per destare l’attenzione sulla natura di ciò che accade, che ci accade ora. Già così è stato per Simone Weil, e se il teatro delle Laminarie si rifà alla sua Iliade è per rappresentare la violenza all’ordine del giorno, ripetizione ottusa di un enigma di cui oramai non è più possibile dare rappresentazione corale, che non esplode più in parole, ma si condensa nella nudità del gesto contratto e del dire frantumato. Tuttavia è proprio il carattere tragico a fare la differenza tra queste prime prove delle Laminarie e tanta parte del teatro contemporaneo, anche nei suoi vertici. L’insensatezza che si esprime in esse non è fine a se stessa, non si risolve nichilisticamente; allo spettatore non è offerto l’insensato come specchio ma come inizio di catarsi. Ne è un esempio il lavoro, Eudemonica, portato a Palermo; che partito dalla rappresentazione del grado zero del linguaggio fissato nella pura gestualità, muove alla ricerca dura, ostinata di possibilità impreviste di comunicazione, secondo i tempi e i luoghi dell’attuale vicenda umana.
La perdita di senso consapevolmente vissuta è ciò che permette l’arresto e il passaggio ad altro, alla vista del mondo dall’altra parte del sipario. Nella tradizione occidentale questo tragitto porta il segno della conoscenza mistica: svelamento del mistero della condizione umana e rigetto della forza come regolatrice della storia. Che il teatro possa diventare luogo di iniziazione ad essa è una scommessa ardua, che comporta per chi lo esercita un processo di spoliazione dai linguaggi costituiti, tutti, e insieme di assunzione di un gravoso bagaglio culturale, per ritrovarne le tracce di verità per il presente.
Questa succinta riflessione sul teatro di Laminarie è nata qualche tempo dopo il primo impatto con esso, avvenuto nel 1996 con Tu misura assoluta di tutte le cose e poi subito dopo con Poema della forza. Mi ci è voluto del tempo per riuscire a capire quello che avevo visto, che di primo acchito mi ha procurato un senso di spaesamento molto forte. Io non sono uno studioso di teatro, anzi confesso che ne capisco quanto ne può capire un normale spettatore e frequentatore di teatro; quindi, quando mi sono trovato di fronte a questo primo lavoro ho provato delle emozioni, ma non certo la comprensione di quello a cui assistevo. Tra quel momento e quello in cui sono riuscito a scriverne qualcosa, è successo che lo spaesamento si è mutato nella comprensione che dietro al lavoro di Febo e Bruna c’era una ricerca di verità, di verità relativamente a una condizione particolare, specifica della nostra contemporaneità, la condizione sociale, culturale, umana, non in astratto, ma in particolare legata a questo nostro momento, alla condizione di vita attuale nella nostra società e quindi una ricerca di verità su una «realtà di crisi», per usare un’espressione felice usata da Meldolesi; una realtà in cui si patisce, uno stato di crisi che ha caratteri particolari. In questo senso credo si possa parlare di una ricerca di verità a partire da qualcosa che si è patito e che si patisce. Senza di questo, cioè senza l’esperienza individuale, personale legata alla propria vicenda personale, senza questa esperienza, questo patimento, nella misura in cui a ciascuno è data viverla, credo non si possa capire quasi niente del lavoro che Laminarie rappresenta.
C’è un’intervista tra il materiale che mi avete mandato fatta a Bruna e Febo da Fabio Acca, dove si dicono cose che aiutano a capire quello che sto cercando di dire. Per esempio, a un certo punto, Febo riferendosi a quella prima rappresentazione, Tu misura assoluta di tutte le cose, dice così: «Tu misura assoluta di tutte le cose aveva al suo interno un testo di Kafka. Lo spettatore però non è partito dalla lettura della Lettera al padre, che è il testo di riferimento. Abbiamo creato prima una situazione teatrale di oppressione, di gravitazione, di schiacciamento, di peso su due figure, siamo partiti cioè da un principio fisico, poi nei due mesi successivi abbiamo lavorato anche sulla voce dalla gravitazione fisica all’oppressione metaforica, politica. Il testo era lì, è stata la disponibilità a una coincidenza». Ecco, credo che valga la pena di sottolineare quest’ultima frase: che cos’è la disponibilità a una coincidenza? C’è il testo di Kafka e c’è una condizione di gravità, di pesantezza, di oppressione: come si mettono insieme queste due cose? Normalmente si prende un testo, magari la Lettera al padre di Kafka e la si trasforma in una sceneggiatura, se ne fa un oggetto che può essere rappresentato a teatro. Febo dice che non è successo questo. Tant’è vero che nella rappresentazione si sente solo qualche parola di Kafka. Cos’è successo invece? È successa una coincidenza: vale a dire che il testo di Kafka è diventato comprensibile, ha assunto significato, non a partire da se stesso, ma a partire dall’esperienza personale di Febo e di Bruna. Come dire, c’è stato un incontro tra un esperienza umana come quella di Kafka, di Simone Weil, di Canetti, e dall’altra parte c’è l’esperienza esistenziale di chi legge e pensa i loro testi: che si dia incontro effettivo non è detto, anzi è raro, perché occorre che si dia una consonanza, un riconoscimento, da cui si può generare qualcosa di nuovo.
Vi leggo un altro passo dell’intervista che mi sembra illuminante: «Eudemonica è nato pensando agli autori che abbiamo incontrato nei lavori precedenti. Nessuno di loro aveva scritto specificamente per il teatro, eppure quegli scritti contenevano ciò che per noi è il teatro. Non ci siamo arresi all’idea di utilizzarli nel nostro lavoro, abbiamo preferito farci fecondare da loro in attesa di trovare una lingua efficace che supportasse la loro forza. Questa lingua non c’è perché non c’erano più i discorsi, allora occorreva rifondare i discorsi. Nel far questo dobbiamo spazzare via tutto e prima di tutto la persona, la biografia, la narrazione, i prima: ripartire dal vuoto, dalla grammatica, dalla sintassi e dalla morfologia». Questo, a mio avviso, è un piccolo manifesto d’intenti di cui vale la pena fare l’esegesi. Ad esempio, prendiamo il linguaggio: «Abbiamo preferito farci fecondare da loro in attesa di trovare una lingua efficace». Non so se vi sia chiaro, ma chi pronuncia una frase del genere si espone molto: espone la propria esistenza, perché «lasciarsi fecondare», se non sono parole a vuoto, dette per fare effetto, hanno a che fare con un’esperienza rischiosa; non è uno scherzo farsi fecondare da Simone Weil o da Salamov: succedono delle cose, magari non si resta gravidi in senso proprio, ma succedono cose molto serie. E così pure «trovare una lingua efficace che supportasse la loro forza». Perché appunto o si resta lettori neutri o altrimenti, se si vuole stabilire un rapporto con questi autori e lasciarsi fecondare, vale a dire esprimere la cosa che è avvenuta e l’esperienza che si è data, occorre un linguaggio adeguato, ed è chiaro che siamo in una condizione storica, umana, culturale in cui o si ricrea il linguaggio, come per altro hanno fatto questi autori, o altrimenti si cade nel baratro dell’ovvietà, che è poi, mi sembra, la situazione di tanto teatro, tanto cinema, tanta scrittura.
Ancora una cosa vorrei dire a proposito degli autori con cui il teatro di Laminarie ha avuto a che fare: mi sembra che la qualità della loro scrittura possa aver giocato un ruolo importante. Questo è del tutto chiaro per la Weil e capisco bene, come dice Bruna nel corso dell’intervista, perché Simone Weil abbia avuto una funzione ispiratrice all’inizio del loro lavoro: al di là dei contenuti di pensiero, per esempio la sua concezione della forza, su cui è stato importante lavorare, c’è qualcosa di più, cioè il fatto che il suo pensiero si è espresso in una scrittura che è già in qualche modo teatrale. Nel senso che la Weil non pensa in astratto, non crea sistemi di pensiero, fa filosofia in atto e in pratica, pensa all’interno di una situazione e la rappresenta all’interno del pensiero: la riflette senza perdere il contatto con l’oggetto. La conseguenza è, e questo penso sia importante per capire il teatro di Laminarie, che nei testi della Weil la riflessione non procede in modo continuo, lineare, ma si frammenta continuamente, perché cerca di rappresentare l’oggetto da più punti di vista, ci gira attorno, avendo però ben presente che lo scopo da raggiungere non è descrittivo, ma è di cogliere la realtà propria dell’oggetto in questione. Questo rende la lettura dei testi della Weil particolarmente difficile, a meno che non si abbia fatto una qualche esperienza della cosa di cui lei sta parlando. Ma questo vale anche per altri autori in questione; pensate a Salamov e al suo modo di riferire l’esperienza del gulag, con una freddezza, un distacco, una chiarezza tale da imporsi con evidenza assoluta.
In definitiva penso che il linguaggio che il teatro di Laminarie va elaborando mira all’espressione poetica. Da qualche parte Febo parla di ricerca del ritmo. Ricercare il ritmo, ottenere il ritmo è proprio della poesia: ritmo per esempio vuol dire la capacità di dosare suono e silenzio, creare la sospensione, un equilibrio tra questi due momenti. Ora direi che questo teatro, proprio perché così spoglio di qualsiasi elemento gratificante e perciò distraente, inviti lo spettatore a entrare nel ritmo dell’azione teatrale, vuole renderlo parte di essa, non con la mente, ma attraverso una partecipazione esistenziale. La comprensione viene dopo.