Non era lui che cercavo. Era venuto ad accompagnare un suo amico delle Marche.
Li ho visti scendere dal treno.
Lui era vestito di nero con delle calzamaglie e una piccola sottana.
Sulla testa rasata si alzava un moicano rosso porpora che ricadeva sulla fronte.
Mi disse – mi chiamo Febo -.
Che nome, ho pensato. Superava di una testa il suo amico.
Aveva un corpo da statua ellenistica e una faccia da antico prete sumero.
Era chiaro: Febo avrebbe lavorato con me.
Del suo amico non ho saputo più nulla.
Ogni giorno andavamo in una piccola scuola di campagna a provare “Gilgamesh”.
Febo faceva Enkidu – Stefano avrebbe fatto Gilgamesh e Allegra, che si aggiunse più avanti, la ierodula.
Avevamo drasticamente dipinto tutti i muri interni della scuola di rosso.
Sul pavimento avevamo steso dei fogli di piombo.
Fin da subito abbiamo condiviso le stanze con un paio di cani immensi ( degli alani neri con le orecchie luciferine, mozzate a punta ) che facevano tutto ciò che volevano in mezzo a noi. Ci venivano addosso, letteralmente, e con la loro massa ci escludevano dalla scena. Bisognava aspettare.
Sulle pareti erano appese delle torce a gas, unica forma di illuminazione dello spettacolo. Nel giro di pochi giorni le pareti rosse della scuola erano tinte di nero fumo e il soffitto, in particolare, era già diventato completamente scuro. Era la nostra caverna senza corrente elettrica.
Ogni giorno mangiavamo seduti in terra dei maccheroni. Sempre quelli. Non si ascoltava musica se non quella apodittica delle fiamme azzurre del gas.
E’ in questo modo, in questo tipo di situazione che ho conosciuto Febo; con una serie di atti calcolati e con un numero preciso di immagini formate. Risvegliare il supporto del palcoscenico. Questo era il nostro problema. Bruciare le domande senza dare risposte. Molta Storia dell’Arte, vera passione per noi. Non abbiamo mai parlato di cose interiori. Tutto era estetico. Tutto era fuori. Perfettamente fuori da – e di – noi. Erano giorni superficiali, tesi, perfettamente ripetitivi. Eravamo in mezzo a un teatro e lo possedavamo. Eravamo sicuri. Eravamo gli unici. Ci vedevano avanzare e niente ci avrebbe potuto fermare. Noi eravamo l’incendio.
Febo e Stefano ebbero molto coraggio. Accettarono di stare nudi e di depilarsi tutto il corpo. In mezzo ai cani, ai serpenti, ai gufi imperiali. La pelle diventava blu al contatto del piombo a terra.
Il lavoro sui corpi era come quello di muovere pezzi oggettivi. Senza discussione, senza ragionamenti che potessero rallentare la portata del dramma che deflagrava per vampate. Il dramma era muto e procedeva per ampi archi di forza; fino alla immagine finale in cui Febo si alzava sul cippo marmoreo come un grande uccello nero. La sua potenza si stendeva, come un velo visto al ralenty, su tutta la superficie del palcoscenico adombrando la scena e mettendo fine allo spettacolo.
Febo era potente nelle azioni. A volte mi faceva paura. Era una questione di gesti. Solo di quello. Come erano portati e quale curva descrivevano nello spazio vuoto.
E giorno dopo giorno vedevo percolare in lui la sapienza della scena. E ogni giorno il moicano si accorciava.
Una immagine che ho di quei tempi è Febo che porta a spasso i molossi in mezzo alla gente che cercava di evitarlo.
Mi ricordava la morte di Bergman.
Era una grande immagine affermativa. A dispetto del mondo. A dispetto di me. A dispetto della realtà.